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Maggio 19, 2017Un quadro, una canzone, uno spettacolo teatrale o un balletto possono trasmetterci un senso di benessere. È possibile parlare dell’arte come una forma di terapia? Vedere un’opera artistica, fruire della bellezza può aiutarci a stare bene: ma come si spiega questo fenomeno?
La risposta a queste domande non è per nulla banale: l’effetto-benessere ottenuto attraverso l’arte, non solo come forma di espressione di se stessi, ma anche come fruizione di opere di altri è cosa nota, ma tutt’altro che facile da spiegare, soprattutto se intende la terapia come qualcosa di scientificamente provato.
Certamente questa sensazione è molto comune, potremmo dire universale, non solo nella nostra cultura, ma in tutte quelle conosciute. Anzi: in molti casi arte e terapia si fondono in modo imprescindibile, come accade ad esempio in alcuni riti sciamanici nei quali l’uso della musica o della danza assumono un ruolo determinante nel compimento del rituale.
È la nostra cultura, soprattutto negli ultimi decenni, ad aver iniziato ad intendere la terapia e la cura come interventi chimici o meccanici, trascurando molti trattamenti tradizionalmente adottati, oggi liquidati come semplici hobby, o diversivi. L’arte rientra certamente tra questi.
Come ho già avuto modo di ricordare altrove, già Aristotele vedeva nel teatro una potenzialità curativa verso lo spettatore: la catarsi, cioè la purificazione delle passioni attraverso la visione della tragedia, una purificazione dell’anima e del corpo allo stesso tempo.
Che l’arte possa agire ed incidere nel nostro animo anche in modo potente è esperienza nota anche oggi: la sindrome di Stendhal, ad esempio, rappresenta forse il caso più evidente di questo fenomeno, con episodi dissociativi attivati dalla contemplazione di un’opera d’arte.
Ma come può un’opera d’arte generare questa sensazione?
La domanda, a mio parere tutt’altro che banale, è difficile sia da porsi che da risolvere. Se si assume un’ottica razionalista (occidentale, potremmo dire) dovremmo inerpicarci alla ricerca di reazioni neurologiche attivate dalla contemplazione di opere d’arte (cosa che difficilmente soddisferebbe la nostra curiosità).
Se invece un’ottica olistica può offrirci strumenti più idonei a rispondere, personalmente trovo difficile riconoscermi in posizioni che talvolta ammiccano al misticismo, soprattutto se parliamo di un prodotto, come quello artistico, che può non aver nulla a che fare con la dimensione mistica.
Una risposta interessante ed efficace è quella data da Bateson nella sua opera “Dove gli angeli esitano” (Adelphi, 1989), nel quale il noto antropologo si interroga sul valore che hanno per la mente fenomeni come la contemplazione della bellezza, la religiosità, il contatto con la natura…
Secondo Bateson ciò che rende terapeutiche queste attività è la loro “potenzialità connettiva”, cioè la capacità che hanno di metterci in connessione con altri e con il contesto intorno a noi.
Questa capacità di riconnessione genera una sensazione di benessere perché permette di ri-equilibrarsi nel proprio contesto, trovare una nuova possibilità di connessione con ciò che ci circonda, diminuendo lo stato di tensione personale.
Questa ipotesi nasce dalla concezione della mente come “mente ecologica”, cioè comprendente un insieme di individui in un contesto: una visione diversa da quella abitualmente intesa, che fa coincidere la mente con il singolo soggetto. Se da una parte una visione come questa può essere lontana dalla concezione e dall’esperienza comune, al contempo riesce a spiegare efficacemente fenomeni come quello appena descritto, nei quali ciascuno sente di essere “più di se stesso”.
L’arte in questo senso diventa un modo per interagire e connettersi non solo con l’artista, ma con la comunità che sentiamo condividere con noi quel particolare tipo di espressione artistica, nella quale entriamo a far parte fruendone a nostra volta.
Un’esperienza forse impossibile da spiegare in parole, ma profondamente percepibile nel cuore.
1 Comment
Sono assolutamente convinta di sì. Se partiamo dall’idea che l’arte è l’espressione di un’anima creatrice, come può un’anima non saper parlare ad un’altra, provocandola e scuotendola, quando opposta e compatendola, confortandola, quando affine ?!? Va però ammesso che, come tutti gli strumenti, in quanto tali, è solo un mezzo e per di più complementare. Pertanto, credo che un suo ricorso, tanto più accattivante quanto più eterogeneo, acquisisca un connotato terapeutico, a valore aggiunto, proporzionato all’ecletticità culturale nonché all’abilità traspositiva-contestualizzante del terapeuta. Una capacità che è tanto più efficace quanto più proveniente da una passione personale prima ancora che da una scelta e preparazione professionale : )