La psicologia può predire l’affinità di coppia?
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Luglio 12, 2018Qualcuno la chiama sindrome del brutto anatroccolo, qualcuno complesso di inferiorità, qualcuno mancanza di autostima.
È la tendenza (che per qualcuno è una condanna) a sentirsi “meno…” degli altri, a vedersi inadeguato ad aspettative proprie o altrui, e quindi, in qualche modo, defilarsi quando è il momento di mettersi in gioco o provare a raccogliere i frutti del proprio lavoro.
Chi vive questa situazione spesso sa essere anche un vero motivatore per gli altri: sa spingerli, incoraggiarli, spronarli. Tutte ottime capacità che all’improvviso spariscono quando si tratta di valorizzare se stessi.
Questo porta la persona a ridimensionare i propri obiettivi prima ancora di cimentarsi con la vera sfida, scegliere compromessi al ribasso invece che puntare al vero obiettivo, con risultati che finiscono per essere inevitabilente frustranti.
L’esito finisce frequentemente per confermare la visione iniziale che la persona aveva di sé: “se sono riuscito ad ottenere solo un risultato mediocre è perché in fondo questo è quello che merito, quello che valgo”, dimenticando che il risultato è stato il frutto di una rinuncia, più che di un tentativo.
Tutto questo può accadere in diversi ambiti: quello affettivo e lavorativo sono ovviamente i più frequenti, ma spesso il medesimo atteggiamento viene replicato anche in altri ambiti, come passioni personali, o le amicizie…
Ma che cosa porta una persona a porsi in questo modo rispetto alle sfide più importanti della vita?
Naturalmente non esiste una risposta unica, dato che, come sempre, lo stesso esito può essere il punto di arrivo di percorsi molto diversi.
Una risposta che viene data frequentemente è legata alla presenza di un contesto di crescita giudicante e svalutante: può trattarsi della famiglia, ma anche di altri contesti, come la scuola.
In questi casi, chi soffre di insicurezza cronica generalmente riporta una situazione in cui le sue doti e le sue qualità venivano sistematicamente sminuite, poiché quelle valorizzate erano altre. Essere un artista in una famiglia pragmatica, o un estroverso in un contesto chiuso (valgono ovviamente anche gli esempi opposti) può comportare il fatto di veder svalutata la propria persona proprio in ciò che più la contraddistingue.
Proprio come il brutto anatroccolo della famosa fiaba, ciò che ci distingue dagli altri è al contempo ciò che ci fa discriminare, che ci fa essere denigrati.
In una situazione come questa le alternative sono due: adeguarsi al contesto, sacrificando la propria peculiarità (che quindi finisce per essere fonte di vergogna); oppure opporsi, accettando di venire svalutati, alternativa molto ardua, se non si ha almeno un alleato a fare il tifo per noi.
Non sempre però le cose stanno così.
Un altro caso che capita frequentemente è quello che potremmo chiamare “la sindrome del figlio del brutto anatroccolo”. Sono cioè quei casi in cui chi soffre di insicurezza non è stato il primo destinatario degli attacchi familiari, ma è affettivamente vicino a qualcuno che invece lo è stato.
In questo caso il fatto di mettersi in mostra finisce per essere connotato come un indiretto attacco a chi è stato preso di mira e isolato, e risulta quindi inaccettabile, perché finisce per essere percepito, anche inconsapevolmente, come uno schieramento a fianco di chi attaccava e squalificava.
In entrambi i casi la propria insicurezza, il blocco a render merito al proprio valore diventa quindi la risposta ad una situazione nella quale ci si è trovati a vivere: nel passato, ma talvolta anche nel presente.
La consapevolezza di tale meccanismo può essere il primo punto di partenza per trovare il modo per disincagliarsi e uscire dalla trappola del brutto anatroccolo, tornando a riconoscersi per il cigno che si è.