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Perché è così difficile cambiare, anche quando si sa come farlo?

Cosa rende tanto arduo mettere in pratica quello che dentro di noi può essere chiarissimo?

“Di testa ho capito quale sia il mio problema, ma in pratica non so cosa fare, non riesco a cambiare davvero le cose”.

Questa espressione non è infrequente nel corso dei percorsi terapeutici, anche quando questi hanno dato risultati fruttuosi, percorsi nei quali la persona si è aperta liberamente e nei quali il terapeuta è riuscito a capire e toccare dei punti importanti…

…eppure poi, dal punto di vista pratico, i cambiamenti latitano, nella concretezza della propria vita il paziente fatica a vedere delle reali differenze.

Siamo di fronte a un fiasco?

È possibile che un lavoro fruttuoso non porti risultati?

Come dobbiamo intendere questo apparente paradosso?

Spesso le persone che vivono una situazione di questo tipo si danno tre risposte.

  1. La prima è “si vede che sono proprio fatto così”: si vede che sono proprio ansioso, depresso, bulimico, ecc., idea che mette una pietra tombale sull’idea di poter cambiare.

  2. La seconda risposta che ci si dà è “si vede che c’è qualcos’altro che ancora non è emerso dal percorso”, un’alternativa certamente più feconda della prima, perché spinge a proseguire il lavoro su di sé e non arrendersi ma che necessariamente va considerata “a breve scadenza”. Se infatti c’è qualcosa che finora è passato inosservato, diventa indispensabile portarlo ora alla luce per non rendere il percorso ostaggio della situazione. Se questo qualcosa non emerge in tempi brevi, la terapia rischia di avviarsi in uno stallo frustrante, nel quale non sono infrequenti vissuti di incompetenza verso di sé o verso il terapeuta (“se il problema c’è, e non si riesce a vederlo, significa che qui qualcuno non è abbastanza bravo da capirlo”).

  1. La terza spiegazione che abitualmente viene data è il cosiddetto “vantaggio secondario” del sintomo: il fatto cioè che ogni sintomo offra un vantaggio a chi ne soffre, ad esempio permettendogli di avere attenzioni e cure. Personalmente vedo questa spiegazione come la più pericolosa perché, soprattutto in alcuni casi, apre la strada all’idea che il problema sia solo una messa in scena e che in fondo potrebbe smetterlo, se solo lo volesse.

Esiste tuttavia una quarta possibilità, che raramente viene considerata, pur essendo estremamente frequente e determinante: quello che io chiamo “il problema delle donne giraffa”.

Forse alcuni di voi avranno in mente quella curiosa tradizione propria di una popolazione del Myanmar, che vuole che le donne portino al collo numerosi anelli, arrivando in alcuni casi a deformare il loro stesso corpo, da cui la definizione “donne giraffa”. Si dice che nei casi più estremi la deformazione del collo diventi tale che i muscoli non riuscirebbero più a sostenere il peso della testa, costringendo la donna a tenere il collare per sempre, pena il soffocamento.

Quando una cosa fa parte per molto tempo della nostra vita, questa entra a farne parte, interagendo inevitabilmente con tutto il resto, diventandone anche parte integrante.

Questo vale non solo per le cose fisiche, ma anche per comportamenti, relazioni e, talvolta, sintomi.

Ciò che quindi può osteggiare il cambiamento è tutto quell’insieme di prassi, cambiamenti e adattamenti che si sono venuti a creare attorno al problema, e che potrebbero finire per sostenerlo, paradossalmente.

Facciamo un esempio.

Una persona insicura e ansiosa per molto tempo si è appoggiata su un partner sicuro e deciso, delegandogli importanti responsabilità in questioni chiave della loro vita. A un certo punto, dopo aver intrapreso un percorso personale, questa persona sente che potrebbe riprendere un ruolo più attivo. Come reagisce il partner a questo cambiamento? Lo favorisce o, anche indirettamente, lo ostacola, magari sottolineando incertezze residue o inevitabili fallimenti?

Questa reazione può non avere nulla di consapevolmente ostile ma, proprio come per il collo delle donne giraffa, viene plasmata dalle esperienze precedenti, che quindi ricadono nel presente, ostacolando il cambiamento.

Situazioni simili si possono trovare nei quadri clinici più disparati, con forme e modi molto diversi tra loro, il cui esito è comunque lo stesso: perpetrare il problema ostacolando il cambiamento.

Il problema potrebbe inoltre non legarsi al ruolo di altri, ma essere interno alla persona stessa che, pur avendo fatto proprie alcune nuove idee e nuove visioni su di sé, può provare ancora ambivalenza, trovarsi in una fase di transizione o non essere materialmente nella condizione per realizzare il salto di qualità che ha in mente.

In questi casi l’obiettivo è sostenere quello che è stato raggiunto e non farlo abbattere da ciò che gli sta attorno. In questo modo il cambiamento può trasformare le relazioni attorno a noi, facendo sì che anche gli altri ci vedano in modo nuovo, oppure può permetterci di attendere l’occasione necessaria a cambiare la situazione.

Soprattutto quando il problema di cui soffriamo è stato parte di noi per molto tempo, diventa necessario riconoscere come questo possa essere entrato in molti aspetti della propria vita, che quindi avranno bisogno di tempo per seguire il cambiamento che noi desideriamo imprimere alle cose.

Mollare il colpo, o tornare sui propri passi significa rendere vani i propri sforzi.

Capire cosa ci sta facendo arenare può aiutare a trovare la soluzione migliore per proseguire il cammino.

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