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La depressione è stata definita il male del terzo millennio.

Stime ufficiali del Ministero della Salute riferiscono che nel corso della vita ne soffre più di una persona su 10 e che già nell’infanzia e adolescenza circa il 3% della popolazione inizia a manifestare periodi più o meno lunghi di depressione. Le stime italiane non si discostano molto da quelle di altri paesi occidentali e certamente non sono le più pessimiste tra quelle a nostra disposizione.

Ma cos’è la depressione?

Come riconoscerla? E come distinguerla dall’inevitabile tristezza che può sorgere a chiunque nella vita a fronte di un momento difficile?

Dentro la categoria “depressione” vengono oggi raccolte diverse forme di disturbo dell’umore caratterizzate da momenti di tristezza, scoraggiamento, mancanza di vitalità, pianto frequente, sintomi che possono avere riflessi anche sul piano fisico con stanchezza, mancanza di energia, problemi a mangiare e dormire, senso di malessere generale, talvolta anche con sintomi fisici veri e propri (cefalee, dolori, ecc.). I desideri di morte sono frequenti e purtroppo i tentati suicidi sono un’ipotesi che non può essere esclusa nelle forme più gravi, anche nei periodi di remissione.

Questo stato emotivo e fisico dura per diverso tempo, settimane o anche mesi, e può rendere la persona incapace di portare avanti anche i normali compiti di accudimento di sé o delle persone care, nonché di svolgere le mansioni abituali.

Spesso la persona depressa finisce per chiudersi in casa: non per paura di uscire (come in alcune forme ansiose), ma proprio per il senso di tristezza e fatica, mancanza di interessi e forze per affrontare il mondo: ogni sforzo appare insostenibile.

Una delle caratteristiche più peculiari e specifiche della depressione è però l’impatto della depressione sulle relazioni intime e familiari: mentre per altri problemi, come i disturbi alimentari o forme ansiose, la famiglia appare poco coinvolta quando non addirittura all’oscuro del problema (tranne quando questo diventa particolarmente grave), le famiglia con una persona depressa sono quasi sempre coinvolte e toccate in qualche modo dal disturbo. Talvolta infastiditi e insofferenti, altre volte vicini e comprensivi, spesso ambivalenti tra le due posizioni, i familiari di una persona depressa non possono evitare di prendere atto del problema, anche a causa delle ricadute pratiche sul menage familiare.

Per lungo tempo, tuttavia, la depressione non è stata considerata “roba da psicologi”, ma un problema medico-psichiatrico da trattarsi con farmaci da assumere per periodi più o meno lunghi, a volte per tutta la vita (il parallelismo più frequente, chissà perché, veniva fatto con il diabete). Ancora oggi, sebbene sempre più pubblicazioni sconfessino l’interpretazione strettamente psichiatrica della depressione, questo tipo di disturbi vengono trattati con un approccio medico e farmacologico, anche a causa di una serie di fattori che favoriscono questo tipo di lettura: sintomi fisici, ciclicità o stagionalità delle crisi…

In realtà le evidenze cliniche dimostrerebbero che l’approccio farmacologico avrebbe trasformato la depressione più che risolverla: se in passato le crisi depressive si caratterizzavano per essere episodi transitori che una volta conclusi non si ripresentavano più, oggi sono più frequenti i quadri cronici, quelli cioè in cui ciclicamente si sperimentano periodi di depressione, talvolta alternati ad altri con umore diametralmente opposto, caratterizzato da euforia ed eccessiva energia ed entusiasmo, chiamate “fasi maniacali” (i cosiddetti disturbi bipolari).

Questa duplice trasformazione (cronicità e bipolarismo) sembrerebbe strettamente correlata proprio dal ricorso ad un approccio terapeutico farmacologico, dato che anche in altri paesi (come ad esempio i paesi in via di sviluppo) tale evoluzione sarebbe stata osservata parallelamente al cambiamento dal paradigma di cura da un approccio di supporto e sostegno psicologico ad uno farmacologico (Whitaker, 2013; Gotzsche, 2015).

Certamente un ruolo determinante in questo passaggio va riconosciuto anche ad un presupposto culturale sempre più frequente: quello per cui tutto ciò che può essere definito malessere debba essere necessariamente rimosso al più presto, anche quando questo sia qualcosa di assolutamente naturale e fisiologico, come una reazione di tristezza e scoraggiamento a un evento doloroso, o u normale periodo di fatica.

Come può aver apprezzato che ha visto il bellissimo film “Inside Out”, uno degli effetti più importanti della tristezza è proprio quello di attivare le persone intorno a noi a darci aiuto e sostegno (proprio come abbiamo sopra descritto essere tipico della depressione): per certi versi la tristezza è la più relazionale delle emozioni, perché attiva vicinanza e maternage.

Naturalmente questo in un contesto culturale che predilige l’autonomia e l’individualismo può essere percepito come fastidioso e patologico: questo porta a trattare la tristezza come un problema da risolvere al più presto… salvo poi determinare una cronicizzazione del problema!

Fortunatamente da un po’ di tempo a questa parte si sta assistendo ad un ritorno ad un approccio almeno integrato al trattamento delle forme depressive che, accanto ad un aiuto farmacologico, preveda un sostegno ed un trattamento psicologico: una scelta che però non può essere operata solo dai curanti, ma decisa in prima persona da chi vive il problema.

Il fatto che esiste una tristezza normale, non significa infatti che anche la depressione sia una condizione alla quale arrendersi o da prendere come inevitabile condizione dell’esistenza: riuscire a capire cosa ci incastra e cosa ci rende impossibile superare il problema è un compito possibile e necessario per potersi lasciare alle spalle la crisi e tornare a star bene. Anche in questo caso ovviamente un intervento precoce può essere determinante per la riuscita del lavoro terapeutico, così come il coinvolgimento di persone vicine a chi soffre di depressione che possono diventare una parte attiva e una preziosa risorsa per l’uscita da questo tunnel.

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