La sindrome dello zerbino: quelli che si fanno schiacciare
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Maggio 8, 2017“Esistono casi incurabili? È possibile che il mio problema non abbia soluzione?”
Oggi prendo spunto da una domanda che moltissime volte mi è stata fatta da pazienti nuovi e vecchi, spaventati dalla difficoltà di superare un problema che li attanaglia, o dalla ricomparsa di difficoltà che pensavano superate.
Il quesito è tanto centrale quanto legittimo per chiunque, sia che affronti una psicoterapia, sia che cerchi di risolvere la questione in autonomia. Credo tuttavia che la risposta, altrettanto importante e legittima, non possa essere liquidata con una banalizzazione o semplificazione dei termini.
Penso che il rischio maggiore in un caso come questo sia legato all’idea di “soluzione” o “cura” del problema: due termini che, profondamente diversi, vengono tuttavia spesso confusi o erroneamente presi come sinonimi.
La risposta alla domanda iniziale è molto diversa in base a ciò che intendiamo quando chiediamo una risoluzione del nostro problema emotivo, relazionale o affettivo.
Vediamo alcune declinazioni di questa idea:
1) “vorrei tornare come stavo prima che il problema si manifestasse”
Questa richiesta, se perseguita in senso letterale, è chiaramente impossibile, perché si basa su un principio non irrealistico: l’idea che si possa tornare indietro nel tempo senza che ciò che è accaduto lasci una traccia. Questo pensiero si ritrova più frequentemente di quanto si pensi anche in ambiti diversi dalla psicologia clinica in senso stretto, come la politica, l’economia o la medicina.
Alcuni anni fa un chirurgo plastico venne condannato a risarcire una paziente che si era sottoposta ad un intervento estetico con la promessa che “dopo l’intervento avrebbe avuto il seno di vent’anni prima”. Promessa chiaramente irrealizzabile, e quindi giustamente bollata come truffa.
Cancellare la storia ovviamente non è possibile, oltre che dannoso perché ci impedisce di farne tesoro: ciò significa che la risposta alla domanda “esistono casi incurabili?” in questo caso dovrebbe essere “tutti i casi sono incurabili, per fortuna, perché non è possibile cancellare ciò che è stato”.
2) “vorrei che il sintomo sparisse”
Poter chiedere che un sintomo specifico sparisca è una richiesta legittima e sensata che ha bisogno di essere declinata però all’interno del caso specifico.
Nessun problema è uguale all’altro, questo è già stato detto molte volte, e ogni problema ha una sua storia. Quando un problema è presente da molto tempo nella vita di una persona e ne investe diversi ambiti, è difficile che questo sparisca del tutto. È più facile che si possa avere una riduzione nella frequenza o intensità dei sintomi, un miglioramento della qualità di vita.
Se quindi intendiamo la questione in questi termini è possibile dire che certamente esistono situazioni in cui il problema non può essere debellato, ma ciò non significa che non possa invece essere portato entro un livello soddisfacente.
A volte poi la risposta a questa domanda merita un’ulteriore specifica temporale: a volte un sintomo non può sparire in questo specifico momento, in questa fase della vita. Riuscire a portare la situazione ad un livello accettabile e aspettare che alcune condizioni esterne cambino può essere un’ottima soluzione.
3) “vorrei che qualcuno si curasse di me e del mio problema”
Quando ciò che viene chiesto è la possibilità di un ascolto e comprensione, chiaramente, non esistono situazioni che delle quali non è possibile prendersi cura, e sulle quali si possa in qualche modo arrivare a dare il proprio sostegno. Al contempo è pur vero che generalmente chiunque viva una situazione di crisi, difficilmente chiede solo ascolto, aspettandosi in qualche modo un miglioramento della situazione, attesa che ci riporta in qualche modo alla situazione precedente…
Ma qual è allora la risposta alla domanda da cui siamo partiti?
Esistono casi incurabili, problemi irrisolvibili?
Credo che la risposta più onesta sia che ogni problema, così come ogni esperienza, una volta che appare nella nostra vita, entra in qualche modo a farne parte. Come e quanto questo accada può essere però oggetto di lavoro.
Ho sempre trovato estremamente affascinante l’inspiegabile fenomeno della “memoria dei violini”: la purezza della nota emessa da un violino non dipende solo dal musicista che lo suona in quel momento, ma anche da chi lo ha suonato in precedenza. Le vibrazioni impresse alle corde rimangono come una memoria appresa dalla materia, che tende a riprodurle spontaneamente (questo è il motivo per cui nessun concertista farebbe suonare un pregiato Stradivari ad un dilettante…).
Lo stesso accade per noi umani: ogni nota suonata rimane impressa dentro di noi, con la possibilità non escludibile a priori che questa possa riemergere.
Riuscire a comporre una nuova melodia tra armonie e dissonanze è la sfida da affrontare.
La risposta alla nostra domanda.